Darkthrone – “Hate Them” (2003)

Artist: Darkthrone
Title: Hate Them
Label: Moonfog Productions
Year: 2003
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Rust”
2. “Det Svartner Nå”
3. “Fucked Up And Ready To Die”
4. “Ytterst I Livet”
5. “Divided We Stand”
6. “Striving For A Piece Of Lucifer”
7. “In Honour Of Thy Name”

Quella dell’odio è sempre stata la forza motrice dei Darkthrone: al contempo loro causa scatenante e fine ultimo, la ragion d’essere di ogni scelta artistica ed umana da essi compiuta, esaurita la quale l’entità di Kolbotn si è man mano trasformata in qualcosa di diverso – non solo sul piano prettamente musicale, ma più ancora nel significato che i due strumentisti hanno voluto rivestire per chiunque li riuscisse ad apprezzare. Fino ad allora, l’odio di Nocturno Culto e Fenriz non aveva infatti mai perso d’intensità: aveva semmai cambiato obbiettivo (prima l’illusorio movimento Death Metal svedese, poi il Black nordico da loro stessi codificato) e di conseguenza modo di concretizzarsi (la tangibile vocazione etero- ed auto-distruttiva dei primi tempi e poi l’isolamento in risposta al breakout della scena norrena), eppure non aveva abbandonato per un solo istante il duo alla stregua di un intangibile quanto cruciale terzo membro sostituitosi da tempo al dimissionario Zephyrous.
Con simili premesse, l’idea di intitolare “Hate Them” una release pubblicata due decadi fa, e dunque ad oltre tre lustri dallo scocco di quella scintilla d’avversione all’esistente, risulta intellettualmente ben distante dal facile svilimento del concetto operato dopo il ritorno del nome sotto Peaceville. Plaguewielder”, con la sua scrittura mai così ricercata per quelli che erano e sono ancora gli standard darkthroniani, aveva del resto chiuso nel modo migliore un periodo di forte assestamento, dove per la coppia l’importante era comporre qualcosa anche di non necessariamente qualitativamente elevato ma che li differenziasse sempre e comunque da uno settore a loro dire ormai alla deriva, sfociando in opere dalla forte estemporaneità sebbene valide sotto ogni aspetto. Nel 2003 però c’è bisogno di ricordarsi una volta per tutte chi sono i Darkthrone, qual è l’essenza stessa del loro operato; e forse è proprio tale necessità il motivo dell’ennesima rinascita dalle ceneri di un similmente glorioso monicker.

Il logo della band

Come si può tuttavia imprimere una chiara sensazione di svolta quando ci si trova nel bel mezzo di un percorso in cui l’assenza di consequenzialità, tra virate impercettibili e persino qualche piccolo dietrofront, è stata a lungo l’unica costante? Di fronte ad un simile dilemma il duo adotta la tattica che gli ha garantito fama e fortuna presso contemporanei e posteri, e guarda al passato anche remoto attualizzandolo secondo le circostanze offerte o imposte dal presente. Quello che era stato l’unico netto ripensamento della loro carriera, e cioè il brusco salto intercorso tra Soulside Journey” ed A Blaze In The Northern Sky”, viene riletto su più livelli e diviene carbone ardente col quale alimentare la locomotiva guidata da Skjellum e Nagell: quest’ultimo a quanto pare appena uscito da uno dei suoi molteplici periodi di depressione ed ansioso di tornare a comporre la musica più cattiva potesse uscire da lui e dal suo compare, oltre che di canalizzare la ritrovata rabbia (o sarebbe forse meglio definirla sardonica ira?) in alcune righe testuali senz’altro indicative dell’acida weltanschauung d’ora in avanti abbracciata dai Darkthrone, come ad esempio la “Striving For A Piece Of Lucifer” così rivelatoria circa le numerose strigliate del batterista all’indirizzo dell’attuale contesto locale; ed appunto in norvegese tornano ad essere scritti e cantati alcuni ritornelli se non interi testi di quello che è il primo lavoro del gruppo a contenerne dai tempi in cui era un certo Count Grishnackh a scriverli. Pertanto è all’amata-odiata scena d’origine (come a ribadire: Norway, be my grave…) che si rivolgono i suoi primogeniti ribelli, scappati di casa in preda al disgusto per via della severe lack of demons da loro denunciata ed ora ritornati a giocare sullo stesso terreno degli indegni epigoni senza bisogno di nascondersi dietro velleità sperimentali e altre distrazioni.

La band

Seppure la crociata contro qualsivoglia orpello non abbia mai visto i ragazzi di Kolbotn battere in ritirata o cambiare alcuno schieramento, ritrovarsi ad appena un biennio dall’invidiabile dinamica di Plaguewielder” di fronte alla linearità ed alla crudezza del follow-up rilasciato nel 2003 restituisce lo stesso spaesamento provato un decennio addietro al divampare dalle casse di una “Kathaarian Life Code”, nella composizione assai semplificata dei brani tanto quanto nel suono inasprito dei cordofoni elettrificati e distorti, prossimo ad acuirsi nel gemello “Sardonic Wrath” ma già qui pienamente ascrivibile al raschiante digrignare delle chitarre Moonfog a cavallo del Millennio appena iniziato; quel tono sospeso tra il ritorno all’approccio lo-fi dei primi Novanta e la proiezione verso scenari cyber-industriali (si dia uno sguardo alle ruote dentate campeggianti in copertina) ancora diffuso in Norvegia, il quale porta la firma tra gli altri del defunto produttore Lars Klokkerhaug al lavoro qui, sull’analogo successore e sull’iniziale quadrilogia dei Vreid anch’essa intrisa di fumi tossici e travi arrugginite. E proprio dalla ruggine, emblema della materialità degli intenti dei due così come del loro continuo orientarsi verso un passato ben più interessante rispetto allo stereotipato presente, ha origine “Hate Them”, il quale sin dalle prime battute affidate ad un’opener dal perfetto crescendo da proto-Doom a Black novantiano evidenzia il ritorno a soluzioni più spartane quale scelta politica di totale rottura, per cui il vacuo effetto sorpresa cede il posto all’onestà in-your-face di alcuni dei momenti più sfacciatamente catchy a quel punto mai propostici dai Darkthrone: impossibile allora resistere alla doppia cassa che tira l’indimenticabile e polemica “Striving For A Piece Of Lucifer”, allo slide di Nocturno Culto sulla chitarra a metà del selvaggio Rock & Roll celticfrostiano di “Det Svartner Nå”, o alla ripartenza di dichiarata fattura Punk (nel 2003, ripetiamolo) la quale sconvolge la belluina “Fucked Up And Ready To Die” subito dopo un break di nuovo doomeggiante e dalla malignità vocale e strumentale invero degna della tanto decantata Unholy Trilogy.
La dimensione di riferimento dei norvegesi è pertanto ormai quella dei luridi scantinati popolati da loschi figuri muniti di cresta, spille e toppe d’ordinanza, ma d’altro canto la loro devozione non basta per risparmiare a questo immaginario il consueto imbastardimento così caro ai due musicisti, con una “Divided We Stand” che rimanda tanto al vecchio e fidato Crust in d-beat quanto a “Scream Bloody Gore”, ai Chris Reifert e Paul Speckmann sicure ispirazioni per l’aver unito a fine anni Ottanta le sonorità estreme (seppur nell’opposto campo da gioco) all’etica do it yourself, prossima ed esplicita musa dei Darkthrone in un matrimonio notoriamente celebrato da The Cult Is Alive” ma per cui galeotto era stato in fin dei conti questo decimo rivoluzionario lavoro in studio.

Registrato in ventisei ore contate, almeno stando a quanto riportato non senza una punta di spregiudicato orgoglio nel retro di qualsiasi ristampa su qualsivoglia formato, “Hate Them” riesce pertanto a ripetere quel piccolo miracolo riuscito soltanto ai veri capolavori firmati Darkthrone: ossia far suonare moderni e attuali un paio di musicisti inscindibili dall’idea di passatismo sventolata con così tanta fierezza. Le devastanti sette tracce formanti la tracklist aggiungono una volta per tutte la leggenda di Kolbotn al novero di band rinvigorite dal magico tocco di Moonfog Productions, che proprio con loro e l’ancor più bestiale esordio omonimo dei Disiplin esplode gli ultimi, mai così letali ordigni prima del tramonto ironicamente coinciso con la progressiva metamorfosi da reietti a rockstar dei padroni di casa Satyricon. Al contrario, Fenriz e Nocturno Culto mantengono la rotta pubblicando a stretto giro un’opera per quanto possibile ancora più centrata nel suo obbiettivo di fare male, tanto che dopo di essa non può esserci che l’accettazione di aver dato ciò che c’era da dare, di essere “Too Old, Too Cold” per partecipare ad una maratona di cui nessuno ricorda più dove si trovi il traguardo; l’odio che cola fumante da “Hate Them”, lo stesso di sempre elevato però da quell’acredine di chi a trent’anni si trova a tirare le somme della propria gioventù, si trasforma perciò in umorismo nero da una parte arguto e veritiero, ma dall’altra anche ben studiato per riscuotere a sua volta e bramoso odio dai fan traditi, quasi in alternativa a quello che dei Darkthrone era stato fedele compagno di viaggio.
Vent’anni fa tuttavia nessuno avrebbe potuto fare simili previsioni di fronte ad un tale stato di rinnovata grazia; e mentre oggi la discografia si allunga con full-length tra il superfluo e l’imbarazzante, ancora pochi sognatori sperano, lo volesse il destino, di risentire quegli strumenti martoriati così come lo furono durante l’ultima fase davvero creativa di un duo consapevole del fatto che, di fronte alla sua potenza di fuoco, nessuno sarebbe rimasto in piedi una volta diradatosi il fumo.

Michele “Ordog” Finelli

Precedente Negură Bunget - "'N Crugu Bradului" (2002) Successivo Helheim - “Yersinia Pestis” (2003)